L’attuale edificio ospita oggi la scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Paciano, Panicale e Piegaro, è frutto di recenti ristrutturazioni e dell’adeguamento sismico. Oggi bene culturale dei primi del ‘900, fu inaugurata nel 1934, il progetto risale al 1911. Lo scalone che si divide in due con il quale si raggiunge il primo piano ci racconta le rigide divisioni di genere che prevedevano addirittura la salita dedicata ai maschi e alle femmine (rispettivamente a destra e a sinistra).
La scuola edificata con contributi pubblici e privati è stata finanziata anche della famiglia Buitoni come ricorda il nome Maria Egiziaca Buitoni.
Un cancello pesantissimo. Edificio giallognolo, grandissimo ai miei occhi, scale lucide con un oleandro al bordo di ogni rampa. La mamma mi porta in braccio fino al portone perché a piedi da Borgarucci è stata lunga, la strada, anche se la scorciatoia per il viottolo delle Caselle è comoda. E poi c’è il fosso da attraversare: l’acqua c’era in quegli anni nei fossi, e tanta. Scrosci di schiuma bianca ad ogni temporale e granchi dappertutto. Una cartella di cuoio marrone con una fibbia impossibile da aprire per me. Una matita, una gomma, due quaderni e una scatola di legno chiaro con la penna. Bellissima penna a inchiostro con uno stramaledetto pennino che diventerà la mia ossessione.
Ingresso grande sul corridoio lunghissimo e la prima porta davanti a destra è aperta. “ Buongiorno” dice la mamma. Io niente, mi sento piccola e basta in quell’aula gigantesca con delle finestre grandi, ma così grandi che puoi vedere tutte le colline di fronte in un attimo. A braccia aperte e con un sorriso bonario e rassicurante si avvicina lui: il Maestro.
Non so ancora che da quel momento lui diventerà una delle persone più importanti della mia vita. Quello che, insieme alla mia famiglia, sarà il mio educatore, colui che “magistralmente” getterà le basi del mio cammino. Colui che guiderà la sana crescita di ogni pianticella a lui affidata in quel preciso istante. Se solo chiudo un attimo gli occhi sento ancora la sua voce suadente e dolce, ma sicura, che ci invita a salutare le mamme e a sederci tra quei piccoli banchi davanti a lui.
Fin da subito si capisce la sua voglia di insegnarci l’ordine. Ogni bambino deve essere a posto all’arrivo a scuola, nella persona e nel comportamento. Controllare le unghie tagliate, i capelli ben pettinati, le scarpe pulite e così via. Ecco spiegato forse il primo quesito di quei termini abbreviati da lui scritti spesso accanto alla data delle lezioni: “Ord.”, secondo me stava per ordine.
C’è poi un momento di conversazione anche durante questo, diciamo controllo, che ci invita a commentare con lui i motivi dell’eventuale dettaglio trovato fuori posto. Così si impara a parlare. Ed ecco forse quel “Conv.” abbreviato.
Infine tutti in piedi, insieme, a mani giunte per la preghiera prima dell’inizio della lezione. Un perfetto segno di croce imparato dalle suore e giù tutti seduti a incominciare . Ecco il terzo termine “Preg.”. La preghiera.
Il calamaio inserito al centro di ogni banco viene rifornito con parsimonia dal Maestro ogni volta che è necessario, e il suo grande “tampone” assorbente ci salva in extremis altrimenti irrimediabili macchie bluastre. Gli invidio quel dondolante attrezzo a mio parere molto più efficace dei nostri fogliettini di carta assorbente, ma penso che sia uno strumento strettamente riservato a lui perciò cerco di dosare la quantità di inchiostro da prelevare. Ma c’è anche la matita per fortuna: molto più semplice cancellare subito gli errori nelle lunghe pagine piene di astine e tondini non ancora perfetti. Ma lui è lì, sempre vicino ad ognuno di noi ad aiutarci con la sua grande mano racchiusa delicatamente sulla nostra per guidarci a tratti sicuri.
Siamo una decina di bambini, pochi ancora, tutti rigorosamente uguali, grembiulini neri e fiocchi bianchi inamidati con acqua e zucchero per stare più rigidi e quindi più in ordine. Le sue grandi mani sono anche capaci di raddrizzarne le estremità con un gesto semplice e veloce, e poi profumano quelle mani, di un qualcosa di sconosciuto che è forse una crema o non so che altro, quando ci accarezza la guancia affettuosamente. E’ gradevole anche perché nelle nostre case, soprattutto quelle di noi bimbi di campagna, ci sono profumi diversi, al massimo quello della brillantina Linetti racchiusa in un piccolo barattolo verde sul lavamano in camera dei nostri genitori. Il babbo se la mette quando va a Messa. E poi ci può essere il profumo del pane fatto in casa quando va bene. Quando va meno bene c’è quello della stalla che è sempre sotto le finestre perché la stalla è accanto alle scale d’ingresso.
Ma lui, il Maestro, è buono. Lui non ci fa sentire diversi dai bambini del paese; lui, se ci vede imbarazzati quando arriviamo con le scarpe sporche di fango, ci aiuta a ripulirle e ci dice che noi almeno, stando in campagna, abbiamo tante cose buone da mangiare e tanto spazio per giocare. Io, con i bambini più grandi di Borgarucci, dopo il primo giorno con la mamma, vado a piedi a scuola in paese: sono quasi due chilometri per il sentiero del fosso che ha sì grandi pietre sporgenti dai suoi flutti, ma un po’ troppo distanziate tra loro per le nostre corte gambette. Succede perciò a volte che un piedino finisca nell’acqua e anche quando piove si arriva spesso bagnati a scuola.
Ma non è un problema per noi, difficilmente ci ammaliamo per questo, anche perché il Maestro, non appena ci vede i piedi bagnati chiama la bidella Sestilia che corre con un cesto pieno di legna per la stufa. Lui ci fa sedere, ci toglie le scarpe e mette la scopa appoggiando l’estremità del manico sulla stufa e l’altra parte su un banco, e ci stende sopra una fila di calzine colorate ad asciugare.
Mi sembra ancora di vedere tutti quei colori, risultato del lavoro delle nostre mamme e delle nostre nonne. Certo, non si comprano mica tutte le calze che servono ai bambini! C’è la lana da dipanare la sera davanti al camino e ci sono degli affilatissimi ferri apposta per realizzare calze, golfini, cuffie, sciarpe e quanto possa servire per ripararci dal freddo.
Solo con il Maestro stiamo bene, con lui siamo tutti uguali, mentre spesso capita di sentirci in qualche modo diversi se ci troviamo in qualche negozio del paese con le scarpe un po’ infangate. Tanti ci guardano male e io mi sento a disagio quando, la domenica, vado a Messa con la nonna Marianna e subito dopo si passa a comprare la pasta, lo zucchero, il sale. Oppure si passa da Rocchini per comprare i bottoni, del filo, o i piccoli chiodi che servono al nonno per i suoi innumerevoli lavori. A me però piace tanto uscire con la nonna la domenica mattina, sempre a piedi per il solito sentiero, anche perché spesso si va a casa del mio Maestro con un fagottino per lui e le sue gentilissime sorelle. Nella tovaglietta a quadrettoni blu portiamo delle uova fresche, o un po’ di erba campagnola già cotta per loro, o la nostra frutta di stagione appena colta. Nella loro casa è sempre tutto molto in ordine, e le sorelle del maestro non dimenticano mai di darmi qualche caramella che infilo velocemente nelle mie piccole tasche. Hanno una scatola di latta colorata che contiene a volte anche dei confetti, piuttosto duri, ma dolcissimi. Ed ecco che in questi momenti sono io a sentirmi finalmente orgogliosa di venire dalla campagna, perché posso donare qualcosa al mio Maestro, in cambio della gentilezza sua e delle sorelle.
Non me ne vogliano i ragazzi che hanno altri maestri forse più severi, ma la classe del Maestro Chiatti a volte è la più invidiata. Difficilmente ci sono punizioni estreme o lo si sente alzare voce, Ha sempre una calma disarmante anche difronte ad episodi singolari. Succede che qualche bambino poco fortunato rubi la colazione ad un altro, e quando questo scoppia a piangere il Maestro non si scompone. Rimprovera il piccolo ladruncolo e magari lo costringe a raddoppiare i compiti, poi al derubato pensa lui. Gli da subito un pezzo della sua colazione. E tutto finisce.
Le sue lezioni non sono mai noiose, ha sempre qualcosa di interessante da farci vedere. Non si limita a spiegare ma ha sempre una dimostrazione pratica alle sue spiegazioni. Si parla del baco da seta? E lui tira fuori una scatola con dei bianchissimi bachi da seta, quelli veri, e subito ci incarica di occuparcene in prima persona. Siamo felicissimi. Io non vedo l’ora di andare a casa con il mio prezioso animaletto perché il Maestro ci ha detto di cercare subito per lui delle foglie di gelso.
Per noi della campagna questo non è un problema. Di gelsi ce ne sono quanti ne vogliamo, noi li chiamiamo “moroni” forse perché i loro frutti sono dolcissime e morbide more che possono essere sia nere che bianche. Il baco da seta mangia le sue foglie con una voracità indicibile, formando ai loro lembi una sorta di ricamo tagliuzzato minuziosamente. Ci sentiamo bravi quando il maestro ci fa vedere che il bozzolo è completato. E’ questa una vittoria conquistata grazie a lui che ci ha dato fiducia. Cresciamo velocemente con lui. Adesso scriviamo bene, quasi tutti. Io prendo ottimi voti in italiano, i suoi 10 sulle mie pagine hanno lo zero perfetto come l’ O di Giotto. I miei genitori sono contenti di me ma non sono molto brava in matematica, e quando il compito si fa un po’ più complicato cerco il suo sguardo che puntualmente incrocia il mio e, meglio di qualunque psicologo, mi legge negli occhi e interviene. Oggi si parla degli alberi? E via tutti fuori su, lungo la strada che porta al Pausillo a vedere le querce con i loro frutti marroni incastonati in un perfetto guscio che sembra un ditale da sarta. Fino a ieri erano per me solo il cibo che si raccoglie a terra per dare ai maiali. Oggi le vedo con altri occhi perché il Maestro ci racconta tutto il processo che precede l’arrivo del frutto. E in qualche modo, oggi, comprendo che con lui si sono precorsi i tempi. Molte volte. Senza internet. Noi non abbiamo nemmeno la televisione, così il maestro ci accompagna al bar di Boldrini, che è il sindaco di Paciano, perché lì possiamo vederne una. E’ una strana scatola che non solo parla come la radio che abbiamo in casa, ma si possono vedere anche le persone che parlano. Quelle persone mi sembrano tutte pallide e quando vedo l’immagine di bambini che giocano fuori mi sembra strano non vedere le loro guance rosse dal freddo come le mie. E anche le femmine hanno i pantaloni! Qui no, da noi le femmine hanno solo le gonne e i calzettoni, anche in inverno. Quando chiedo al Maestro perché sono tutti bianchi in faccia e vestiti senza colori lui ci porta subito in classe e ci fa vedere un librone dal quale trae la spiegazione. Ha sempre una spiegazione, a tutto.
Poi dobbiamo essere bravi anche a fare ginnastica, tutti insieme nel corridoio, con calma, non si deve correre dentro la scuola ma fare movimenti delicati e corretti, fuori si può correre e la ricreazione è un momento magico. Giochiamo a nascondino, lui che dal portone osserva attento non farà la spia al bimbo che fa la conta con gli occhi chiusi appoggiato al leccio.
E l’ora della musica? Una meraviglia con l’anziano maestro Bacioia: già solo il nome incute timore, ma anche lui in fondo è un buono, e bravo a cantare. Credo che l’Inno Nazionale sia il primo canto che le nostre giovani corde vocali abbiano cercato di intonare. Accostare questa attività a quella della recitazione è un tutt’uno. A quest’ultima è preposta la maestra Liliana Raimondi. Molto portata ad insegnare recitazione, perciò regista, animatrice, nonché sarta di ognuno dei costumi indossati da noi bimbi. Rosaura da me impersonata durante una recita di carnevale mi ha regalato uno dei miei giorni più belli. Il maestro Chiatti affida la sua classe alla signora Raimondi per ogni rappresentazione ma non manca mai, prima, di chiedere ai piccoli attori quali sono le sue preferenze. C’è grande collaborazione anche con il maestro Berretta ed il maestro Tei, tanto che ognuno ha il proprio ruolo per l’insieme delle cinque classi.
Scorrono i giorni, i mesi, e quindi gli anni, proporzionalmente all’orlo dei nostri grembiulini neri. Quasi senza rendermene conto mi ritrovo a saltare sulle pietre del fosso senza più finire in acqua. Solo perché le mie scarne gambette sono diventate un po’ più lunghe.
Adesso conosco quella cosa che si chiama geografia, italiano, matematica un po’ meno, poi le scienze e quella materia che si chiama “storia”. Su questa parola il Maestro ha speso tante ore, tanti giorni, finché non ha avuto la certezza che quasi ognuno di noi ne avesse compreso l’importanza. In fondo, quando la mia classe è nata nel 1955, la seconda guerra era finita da appena due manciate di anni e si sentiva forte il bisogno di risorgere, di migliorare, ma anche di ricordare. Il suo libro di storia è più bello del nostro, ha tante foto e tante pagine in più, e poi lui ha tanti fogli dove legge e dove scrive continuamente. Quanto scrive! La nostra classe cresce ogni anno di più, in ogni senso. Intendo anche nel numero degli alunni, già, perché ogni anno molti bambini vengono bocciati e quindi l’anno successivo ne arrivano altri. E’ la regola. O studi e hai un buon profitto o ripeti l’anno. Ci sono bambini che ripetono quasi ogni anno e li vediamo nella foto ricordo annuale a volte più alti del maestro. Sembra buffo adesso, ma nella maggior parte dei casi il ciclo elementare è il primo e l’ultimo. Dopo c’è, bene che vada, la scuola media e per questo il Maestro vuole che si arrivi in quinta con il massimo delle conoscenze possibili.
Anche una delle numerose nevicate invernali è l’occasione per imparare, perché no, da che cosa viene e cos’è esattamente quel candido tappeto bianco. Tutto è un valido motivo per imparare con il maestro.
Nel nostro piccolo paese non c’è una libreria, ma con il maestro Chiatti si può leggere di tutto. Lui ne ha così tanti di libri che io non so mai quale scegliere, già, perché possiamo portarne a casa quanti ne vogliamo. E poi si commentano insieme, si riassume, si racconta. Si domanda cosa non si è capito. E si apprende la vita.
Ricordo come fosse ieri. Quinta elementare. Di già. Quest’anno ci sono gli esami, e il conto alla rovescia adesso lo sappiamo fare bene. Il maestro non perde occasione per ricordarcelo, non per spaventarci però. Solo perché vuole il massimo impegno da tutti noi. Adesso siamo in tanti. Come ho già detto siamo cresciuti nel numero, su su, nel corso degli anni. Certo è dura anche per lui arrivare in quinta con quasi il triplo dei bambini che aveva in prima. Ma è normale. Ed io ho delle compagne e dei compagni che per guardarli negli occhi devo salire su uno sgabello, tanto sono più grandi, ma è bello stare tutti insieme. Si divide e si condivide ciò che c’è e ciò che non c’è. Quelle finestre che adesso mi sembrano più piccole di quando entrai nell’aula quel lontano giorno del primo ottobre 1961, lasciano intravedere profili di colline verdi baciate da un sole arancio che ogni sera le indora di tramonti. Il Maestro ci ha insegnato ad apprezzare anche le cose non tangibili. Le meraviglie della natura.
E mentre gli esami sono già un ricordo di pochi momenti fa, ho capito che non era poi una cosa così difficile perché lui ci ha fatto provare, molte volte, a ripetere le lezioni su cui aveva tanto insistito. Il difficile deve ancora arrivare. Il momento più triste. Quello dei saluti al Maestro.
Fino ad oggi non ci avevo pensato abbastanza. Accidenti, è la prima volta che invidio i compagni che saranno bocciati, perché almeno loro staranno ancora un anno alle elementari e potranno vederlo più spesso. E io? Io invece scenderò quelle scale che portano alla scuola media. La scuola dei grandi, sì, dove non ci sarà un solo insegnante ma tanti. Li ho visti attraversare il cortile tante volte durante la ricreazione e non mi sono sembrati avere lo sguardo buono del mio Maestro. Mi mettono timore, ma forse mi sbaglio, comunque sono in tanti. Uno per ogni materia? E il Maestro che le sapeva tutte? Quanti ricordi con lui in quella grande aula, tra i suoi tanti libri, lungo i vicoli del paese, sui sentieri verso il bosco a scoprire la natura. I giochi, la televisione in bianco e nero, i compagni e i confetti della domenica. E tanto, tanto altro ancora. Uno alla volta, come tanti piccoli-grandi soldatini ci avviciniamo a lui che si è messo vicino alla porta per salutarci. Io non sono mai la prima perché quelli più veloci mi passano sempre avanti, ma adesso tocca a me. Come ha fatto con gli altri mi mette una mano sulla testa e si abbassa verso la mia guancia per darmi un bacio, mentre mi raccomanda di fare bene tutti i compiti delle vacanze. Io lascio cadere la cartella piena delle ultime cose da portare a casa e allungo le braccia verso il suo collo per stringerlo forte. Proprio adesso questo nodo alla gola non ci voleva, non riesco a dire nemmeno una parola. Lo stringo forte e basta. E poi qualcosa nell’occhio mi sta facendo annebbiare la vista. Devo correre fuori. Raccolgo velocemente la cartella e scappo di corsa verso le scale, arrivo dietro la siepe dei giardini e le mani della fata turchina sciolgono quel nodo che chiudeva la mia gola. Un pianto fatto di lacrime calde che scendono a lungo sulle guance di una bambina che vorrebbe crescere, senza però recidere i cordoni del passato.
Invece non si può. E anche quando ormai a casa comprendo che da domani sarò già un pochino più grande, vorrei urlare per lui, il mio Maestro, un “grazie” grande come il mondo intero. Perché comprendo che nel cuore di tutti quelli che lo hanno conosciuto ci sarà sempre un posto speciale per lui.
Sembra ieri, invece eccomi qui con i primi capelli bianchi a porre un tassello nel prezioso puzzle del suo passaggio, una delicata ma indelebile traccia lasciata nel nostro piccolo villaggio.
Posso dire inoltre di essere felice di avere incontrato il Maestro diversi mesi fa, quando ancora la sua mente era ancora abbastanza lucida. Mio marito, Franco Bardelli, nato nel 1950, è stato anche lui un suo alunno e, insieme a Graziella Boldrini sua coetanea, che vive a Roma, siamo andati a fargli visita.
L’ uomo che si occupa di lui è molto cordiale: ci ha dato appuntamento ieri, ci aspetta. Portiamo dei cioccolatini. Lui è lì che ci guarda entrare, con lo sguardo un po’ assente, ma solo per pochi istanti. Quando ci sediamo accanto a lui, come nel primo giorno di scuola, ci sorride. Ci vogliono alcuni minuti prima che ci metta a fuoco veramente ma poi ci riconosce. Parliamo lentamente, uno alla volta, ci chiede qualcosa, rispondiamo con calma. Gli chiediamo come sta. Alza le spalle e ostenta una rassegnazione tranquilla. È ben seguito con le sue visite e le sue analisi da fare. La sua grande casa. I suoi libri. E la televisione adesso con i bimbi dalle guance rosse, come le nostre. Dice Graziella: ”Si ricorda Maestro di quella volta che mi mise in ginocchio perché feci tardi a scuola?”. Sorride.
E’ una mattina d’inverno. Fa freddo e piove. Graziella fa la terza elementare e abita giù lungo la strada che porta verso Moiano, più di un chilometro da Paciano. La famiglia Boldrini è numerosa e le scarpe per tutti non ci sono. Almeno non per tutte le stagioni, come in tutte le famiglie dei contadini. La mamma di Graziella è una donna precisa che vuole sempre vedere i suoi figli in ordine e non con i piedi bagnati per una semplice pioggia. Scende di corsa nel ripostiglio sotto casa e cerca tra le tante scarpe dismesse qualcosa che vada bene per la sua bambina. Ma Graziella è cresciuta molto ultimamente e le scarpe dei più piccoli non le vanno, ed ecco là dietro finalmente un paio di scarponi in buono stato. Questi possono andare. Graziella non li vuole nemmeno provare perché sono grandissimi, si mette a piangere, la mamma tuttavia la convince che saranno bellissimi quando li avrà ben lucidati e nessuno si accorgerà del fatto che sono da uomo e un po’ grandi. La piccola, non convinta, vi infila dentro i suoi magri piedini che sono come una noce in un sacco e cerca di correre più che può cercando di non perdere quelle specie di barche, ma si è fatto davvero tardi. Il Maestro ci tiene particolarmente al rispetto degli orari e, dato che la piccola non dà spiegazione del ritardo, ritiene di farla stare qualche minuto in ginocchio al centro della classe. Succede spesso a molti bambini, è una delle poche punizioni che impartisce ai suoi alunni. Questa però per Graziella è la cosa più tremenda che le potesse capitare, proprio oggi, quando tutti i compagni possono vedere quelle grandi scarpe da maschio. Nello stesso istante in cui i bambini scoppiano a ridere lei scoppia a piangere e il Maestro capisce. Capisce tutto e la fa alzare, la abbraccia forte e rimprovera la classe per il comportamento scorretto.
Sono passati tanti anni e lui non può ricordare ogni singolo episodio; adesso ha un sobbalzo e annuisce sorridendo. Quante e quante cose ci vorremmo raccontare a vicenda, ma ora il suo sguardo è fisso fuori verso quel raggio di luce che proviene dalla finestra aperta. Fa caldo, eppure lui ha una giacca di lana e un plaid sulle ginocchia, non vogliamo che si stanchi troppo a parlare con noi, ci alziamo per salutarlo sapendo che dovremo aggiungere anche questi momenti nel cassetto dei ricordi. Gli ultimi. Il suo sorriso rassicurante è immutato e questa volta siamo noi che ci abbassiamo per dargli un bacio sulla guancia, ora è lui quello piccolo che guarda in su. Sappiamo che forse non avremo altre occasioni ma con il suo arrivederci sembra dirci che non tutto è compiuto.
Adesso si sente uno strano profumo nell’aria, è il profumo di quelle mani che accarezzano il viso di ogni bambino che gli passa accanto e se guardo lassù nel cielo stellato vedo lui tra tanti angeli e libri, tra lecci, ulivi e ginestre. Il Maestro, che piano si è alzato da quella poltrona se n’è andato così, in punta di piedi come era vissuto quaggiù tra di noi. E per noi. Consola pensare che, in fondo, ci ha solo preceduti”.